SENTIERI: diario aperto tra bosco e corpo – capitolo 1: tornare

on 14 Luglio | in Esercizi di Mondo | by | with No Comments

Tornare

febbraio 2025

Torniamo all’Arboreto per una lunga sessione invernale.
Non ero mai stata qui in questa stagione.
Questo luogo sa farsi amare anche senza le foglie.
Dividiamo il lavoro tra la sala teatrale (finché c’è luce) e la scrittura della domanda ministeriale (durante le tenebre).
Quello che segue è un diario non esaustivo di quei giorni, spesso travolti dal tempo dell’azione e con poco spazio per il racconto.
Andrà immaginato tutto ciò che non è detto.

Francesca


Quasi piove

venerdì 7 febbraio 2025

La residenza inizia con la crisi.
Mettiamo le mani su Abracadabra, sul corpo che duole, sulle parole sempre un po’ sbagliate.
La creazione è in fiamme.
Abracadabra è rovente e io mi ustiono a pensarlo.
Piango quasi tutte le mie lacrime nel teatro, ieri sera.
Il giorno dopo non sono finite.
Sono andata nel bosco ad urlare.

Prendo nota un po’ a caso:

[Aspettare primavera in apnea]

stare
niente da arrampicare
nessuna speranza verticale
senza tensione, senza presa
resa la fiducia nel cielo
letargo della voglia
veglia senza desiderio
solo uno spazio minuscolo
dove fare autunno
guardarsi i piedi
ingiallire piano
seccare la terra in mano
piantare nel cielo una sola foglia
figlia del fiato di un altro
respirare a lungo dalla narice sinistra
poi basta.

cammino
passi lentissimi pieni di tempo
passi soltanto per noi qui
io e tanti non umani
piante, corpi vivi e morti che fanno la terra
che fra un certo numero di passi che non so qual è
la faccio anche io la terra
cammino quella danza di passi
soltanto per noi
per noi
per noi
per noi
qui
senza la solitudine dello stare assieme senza sentirsi
senza la solitudine degli umani che non sentono
sentirsi tutte
qui
cerco un segno di questo dolore
un segno della terra in faccia
della pietra in bocca
passo attraverso un calicantus che mi fa passare
anche lei tutta rotta
le piovo un po’ addosso
sperando non si beva le mie lacrime
resto così, mescolata alla terra senza niente da dimostrare
niente promesse
nessuna bravura
niente di giusto
tutto sbagliato e perfetto
tutta storta
soltanto per noi
per noi
per noi
per noi
qui.

noi bestie, piante, sassi
restano le urla nei rami
le grida insegnate agli uccelli
lo spavento degli animali
che forse non si spaventano
i miei sono solo altri versi
la terra ascolta
assorbe e sta
questo fanno le relazioni
meteorologia degli umori
i miei pessimi umori
scambio di liquidi

quasi piove
una goccia di saliva cade su questo foglio
le labbra sono appese alla faccia
le parole appese alle labbra
anche loro cadute qui
mute

Torno sul palcoscenico svuotata, lavata e lurida.
Mi siedo e guardo oltre il fondo, quel fondale speciale che qui è bosco.
Quello è il mio fronte. Non la platea, il bosco.
Immagino tutti i corpi così: chi in scena, chi sulla gradinata, tutti a guardare fuori e basta.

natura smetti di essere sfondo
fallo con i miei occhi piccoli
piccoli piccoli occhi
minuscoli pensieri
minuscoli fori per il fuori
fatti guardare con tutti i pori
insegnami a guardare, bosco
smetti di essere utile e bella
guardami in tutto il mio orrore
in questa mia danza sconosciuta
e sbagliata agli umani

oggi sono andata nel bosco a perdere la voce
l’ho regalata al cielo
oggi sono andata nel bosco a bagnarmi gli alluci
a far leccare il mio dolore
natura nuda e spezzata
io mi ricordo i tuoi fiori gialli
i tuoi fuori
verranno i fiori
verranno fuori
verrà ancora primavera
ti guardo tutta dalla mia minuscola minuscola vita
dal tempo del mio urlo che urla

(e poi
ho chiesto scusa al bosco
ho detto grazie al bosco)


Vieni (la stanza degli ospiti)

sabato 8 – mercoledì 12 febbraio 2025

Per fortuna non siamo soli.
Vengono a trovarci Stefano (un prestigiatore mentalista che è anche “il pifferaio magico d’Italia” e suona la lira antica), Alberto (il mitico scenografo di Manifesto Cannibale e Abracadabra) e il nostro Simone (qui in veste di compositore).
Le giornate passano veloci e sature.
Le relazioni mi portano fuori dalla pioggia dei primi giorni. Passiamo all’azione e l’azione è salvifica.
Non ho tempo di scrivere.
Mi entusiasmo vedendo i pensieri diventare immagini concrete e fragilissime, fatte di fumo e bolle giganti.
Con questo stiamo lavorando: la magia di qualcosa che contemporaneamente esiste e non esiste.
Con l’aria attorno alle cose.
Tra suono, voce, magia e materia cerco di far pulsare il vuoto.
Ogni tanto ci riesco e mi esalto.
È tutto difficile, ma nell’essere assieme diventa gioco e non condanna.
A tratti.


WOW

domenica 16 febbraio 2025

Ovvero: il giorno della prova aperta.
Si chiamano WOW tutte le performance che facciamo qui.
Fa parte di un formato curatoriale misterioso che abbiamo ideato per sabotare la mercificazione delle performance e invitare ad altri sguardi.

[Copio dal testo di sala:
WOW* (e altri suoni antirughe)
Misteri intatti, presenti coatti, azioni riciclate e cose appena nate
*movimento di contrazione concentrica ed eccentrica del muscolo orbicolare della branca buccale spesso ma non necessariamente associato a spasmo occipitofrontale.
concept, regia Francesca Pennini
azione e creazione CollettivO CineticO
(i nomi, per ovvie ragioni, rimangono segreti)
WOW può durare dai 15 ai 60 minuti e richiede agli spettatori un piccolo esercizio di fede perché non è dato sapere in anticipo cosa gli artisti mostreranno.
WOW è un dispositivo/contenitore applicabile a qualsiasi creazione di CollettivO CineticO, dagli spettacoli di repertorio fino alle nuove creazioni inedite. Sarà una sorpresa tutta da scoprire.
WOW è un pensiero sismico e sistemico.
È un’applicazione poetica e politica.
Per questa performance è richiesto un piccolo esercizio di fede.
Non saprete cosa state per vedere.
Non saprete cosa non avete visto.
Ci sarà un mistero da attraversare e ce ne sarà uno da lasciare intatto.
È un invito a prendersi cura del buio, del segreto.
Sacri e profani, sudati e tecnologici, epidermici e metallici, tra questi titoli segreti ci sono highlights cinetici come anche nuove creazioni inedite.]

Come “WOW”, oggi, dopo 10 anni, andrà in scena 10 Miniballetti.
C’è qualcosa che nasce e qualcosa che torna, forse per l’ultima volta.
C’è un testimone che passa di corpo in corpo e va dal passato al presente dello stesso corpo.
(Ma nessun corpo è mai lo stesso)
C’è qualcosa di quasi antico, abbastanza lontano da tornare nuovo.
Abbastanza diversi sono i miei occhi e le mie ossa.
Ero alle scuole elementari e su un quaderno scrivevo con ordine maniacale le mie coreografie.
Niente di geniale, ma tutto decisamente ossessivo e immaginifico con tanto di schemi spaziali, movimenti impossibili e corpi di ballo possibili solo nel boom economico degli anni 80… e forse solo a New York.
Non erano coreografie che facevo o sapevo fare: per me la danza era sempre improvvisazione, le coreografie le scrivevo e basta. Grafie.
Più di dieci anni fa le ho rimesse in scena e sono nati “10 miniballetti”, uno spettacolo che ha girato il mondo dal Taiwan al Sudamerica e in cui sono cresciuta, invecchiata, cambiata.
Sono nati per dare uno spazio a quel corpo immaginato, per far reagire la scrittura al fuoco del movimento.
Per fare qualcosa di difficile e delicatissimo.
Per perdere il controllo della coreografia.
Sono nati come modo per respirare assieme, per raccontare non solo della mia infanzia ma di quella possibilità di volo che hanno tutti i corpi.
Ho scelto di rimetterli in scena anche per salutarli, perché questo spettacolo è finito prima a causa del Covid, poi con una mia malattia e infine con l’incidente che mi ha frantumata.
Anche il presente però gioca pesante e non ci arrivo tutta intera.
Quando due mesi fa facevo le mie decine di verticali di forza mi sembrava tutto facile. Ora sono di nuovo rotta, di nuovo a fare i conti con le crepe.
Che avventura costante essere corpi…
Ma: i movimenti che puoi fare sono più di quelli che ti sono proibiti.
Sono potenzialmente infiniti.
E la realtà è molto più interessante della perfezione.

(Pranzo:
Mi dicono di buttare i carciofi rimasti nel bosco.
Lancio anche la terrina. Angelo scende la rupe per recuperarla.
Piccole avventure post prandiali.
Tutto risolto. )

Lo spettacolo non inizia con le luci di scena e non finisce con gli applausi.
Mi sveglio e inizio a prendermi cura dei miei pensieri, del corpo, dello spazio.
So che è tutto delicato, prezioso, fondamentale.
I respiri della mattina informeranno il fiato della sera.
Questo spettacolo è iniziato più di dieci anni fa.
Questo spettacolo è iniziato più di 30 anni fa quando ho scritto il quaderno con le coreografie che non sapevo fare.
Ci ho messo 30 anni per imparare che non imparerò mai.
Disimparare. Perdere tutto e recuperare senza mai tornare sugli stessi passi.
Sono sempre passi nuovi, incerti, principianti.
Sono molto esperta di questo principiare. Precipitare.

Abbandonare il teatro per ultima, dopo che tutti se ne sono andati, mi ha fatto sentire a casa. Ho chiuso io la porta a chiave, ho controllato che tutte le luci fossero spente, ho percorso la salita nella penombra.
Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi ci hanno portato una cesta di frutta e verdura del loro orto e una bottiglia di vino con scritto a mano “Rosso carnaza”.
Lei dice che scriverà qualcosa di questa sera.
Lui mi ripete tre volte che in scena sembravo grandissima, con un corpo enorme… invece fuori sono minuta.
Lei dice a lui che me lo ha già ripetuto sufficienti volte.


Dopo la tempesta

lunedì 17 febbraio 2025

Entro in teatro per prima.
Carmine non sta ancora pedalando sui rulli in camerino (dove ha allestito una postazione che lui chiama “The pain cave” e io chiamo “La ruota del criceto” e che tutte le mattine tra le 7 e le 8 ospita il suo sudore e un certo numero di puntate di Rick e Morty o Arcane).
Il cielo è ancora all’inizio dell’alba.
All’ingresso è rimasto il tappeto che avevano portato ieri per la festa… mi ricorda il tappeto della casa dei miei genitori, quello che è stato palcoscenico e parco giochi delle mie prime danze. I disegni, gli arabeschi, le cornici del tappeto diventavano geografia di passi, coreografia. Chissà se nasce da lì la mia passione grafica per la scena… l’immaginare il palco come un foglio di carta.
Oggi il palcoscenico dell’Arboreto è il mappamondo del volo di ieri. (ndr: il volo del drone che danza in 10 miniballetti generando una tempesta di piume)
Mucchi di piume sparpagliati che sconfinano ai bordi della scena, frattale bianco sul linoleum nero, traccia del moto del volo del drone che ieri ha danzato con me nel ritorno in scena di 10 miniballetti.
Non ero sola. C’era anche una cimice che ha duettato nella mia seconda danza, un ragno con me in quinta prima di entrare (mi sono promessa di non pestarlo ma poi non l’ho più rivisto), Carmine nascosto dietro alla prima quinta che abbassa il microfono con tempismo perfetto e un sacco di vita vegetale e animale attorno, appena fuori dai vetri del teatro, di cui percepivo l’abbraccio.
Spazzo le piume. Ogni gesto del braccio e della scopa che lo prolunga crea vortici e piccole turbolenze. Le piume mi seguono e poi tentano piccoli voli e tornano indietro. Attorno ai tratti rettilinei che disegno a terra si formano pattern circolari di aria resi visibili dalle piume.
Con pazienza zen passo e ripasso nello stesso punto, rallentando il movimento per entrare in risonanza con la dinamica dell’aria.
Termodinamica dei fluidi. Regime laminare e regime turbolento.
Faccio tutto in silenzio, senza musica. Gli altri giorni la musica mi accompagnava in tutti i preparativi, oggi no. Oggi qualcosa deve decantare. I pensieri fluiscono come se fossi a prendere un the con me stessa.
Questo silenzio serve a celebrare qualcosa che è appena accaduto e che vorrei restasse. A non farlo scomparire. Non subito.
Mi siedo davanti alle finestre sul cuscino da meditazione.
Il respiro oggi ha tantissimo spazio. A occhi chiusi prende la forma di una bolla gigante che cresce e cala dentro al corpo… un po’ come la bolla iridescente di Abracadabra.
Ascolto l’eco della danza di ieri.
La clavicola lussata ha reagito sopra ogni aspettativa. Le mie vertebre consumate invece non perdonano e mi parlano con il linguaggio del dolore.
Le ascolto e lo accolgo.
Ieri sera Serena (uno degli angeli custodi del teatro che si occupa di pulizie ma più in generale dell’ecologia del luogo e della sua cura) mi diceva che Carla Fracci a fine carriera danzava, sì, ma aveva qualcuno che la aiutava ad alzarsi dal letto ogni mattina.
Mi sono alzata da sola oggi.
Il corpo è più vivo del solito.
Lo spettacolo ieri non mi ha consumata, mi ha nutrita.
Non è stato lo sforzo, né gli ormoni… adrenalina, endorfine, dopamina. Quelli il giorno dopo ti lasciano vuota e buia. Non è stato nemmeno il successo, dopamina.
È stato l’amore. L’amore scambiato, il respiro assieme. Il fiatone della vita che pulsa più forte.
Mi massaggio i muscoli con il rullo vibrante in una pratica che mescola masochismo, onanismo e cura. Trovo lo psoas che urla, lo sento arrivare fino al piccolo trocantere.
Faccio spazio nei muscoli e nei pensieri.
Trovo delle musiche interessanti per Abracadabra e le mando a Simone come ispirazione.
Ascolto il “Chiaro di luna” di Isao Tomita e immagino un panorama bellissimo su un mondo già finito, ricominciato da un po’.
Forse ci sono solo intelligenze artificiali a guardare il cielo.
Un mondo che si è liberato di noi. Forse abbiamo bisogno di un’apocalisse. Non noi umani. Noi mondo.

Molto pericoloso pensare alla verità come qualcosa di singolare, univoco.
Ripenso ai primi giorni di residenza qui, al pianto assorbito dal bosco. Dov’è quella sofferenza ora? Dove sono le sue istanze? Sono vere? Sì. Sono una delle verità. Un’altra è questa gioia.

Ricevo una mail da Antonio Rinaldi.
Ieri sera l’ho visto entrare con Veronica e Brenno, sedersi accanto a Mariangela Gualtieri. Ero felice. Ho scelto di sedermi in braccio a lui come “spettatore conosciuto”. La sconosciuta invece è stata una certa Robin che è qui a lavorare in una fattoria nella formula “Home Away”.
La prima volta che ho incontrato Antonio è stato nel 2007 o 2008 per un progetto di incontro tra coreografi e videomakers.
Io ero all’inizio del mio percorso per il Premio Giovani Danz’Autori e mi avevano chiesto di mettermi a disposizione come danzatrice nella sessione al Teatro Comunale di Ferrara (dove stava iniziando la collaborazione con il teatro che è diventata una residenza stabile del collettivo qualche anno dopo e fino al 2020).
Ero l’unica “danzatrice a disposizione”.
Avevo la testa completamente rasata e un body a righe rosse e bianche.
Hanno chiesto chi voleva lavorare con me. Nessuno ha alzato la mano. Dopo una lunga pausa Antonio ha alzato la mano. Ho sempre pensato fosse un gesto di cortesia. Era stato bello. Non ricordo bene cosa abbiamo fatto ma so che aderivo ad una porta rossa.
Ci siamo ritrovati poi qui, all’Arboreto, per il premio GD’A a cui partecipavamo entrambi. Lui faceva anche il tecnico. Assieme abbiamo tirato fuori dalle scatole il tappeto danza nuovissimo su cui ho danzato anche ieri. C’era un fortissimo odore di piscina e il bianco era intonso, incalpestabile, iperuranico.
Ricordo la tappa qui: lui si spogliava nudo, apriva tutte le tende del teatro e si infilava nella lunetta della regia sopra agli spettatori. Ricordo anche che il passaggio nell’apertura sul muro ha comportato una certa dose di tribolazione con il corpo mezzo fuori e mezzo dentro alla balaustra e ci ha regalato un immaginario alla Bosch a tema “natiche pelose”.
Io avevo presentato uno studio di Eye Was Ear dove ero in scena con Jacopo Jenna che avevo conosciuto, entrambi teenagers, al Balletto di Toscana.
Alla finale poi Antonio ha fatto tutt’altro. La finale era all’Almagià di Ravenna.
Antonio indossava una maschera da supereroe e lanciava le sedie del teatro facendo una grande catasta. Nell’azione si era infortunato un dito, credo. Conoscendolo non escludo fosse parte del concept. Quella notte tra la performance e l’assegnazione del premio io non ho dormito. La mattina dopo ho vinto ma è stato disturbante. Niente di glorioso, uno strano amaro in bocca. Un amaro per cui non c’era via d’uscita. Anche quando ho vinto il premio Ubu sono stata molto triste.
Il suo spettacolo successivo me l’hanno solo raccontato. Nelle tracce della mia immaginazione lui era steso a terra in un corridoio di quinte dove il pubblico passava alla spicciolata. “Mi hanno detto che eri steso e non facevi niente” gli ho detto. “Non è vero. Ho fatto un peto.” mi ha risposto.
Credo che questo possa sintetizzare la follia e la genialità del pensiero radicale, disallineato e sovversivo di Antonio.
Oggi mi ha scritto questo, ed è arrivato dolce come un dono, tagliente come la verità:

“Nel nido c’è un altro nido.
Ieri, ho assistito ad uno spettacolo.
Ieri, dopo aver assistito allo spettacolo, ho assistito ad un incontro con gli artisti e la direzione del teatro.
Ieri, dopo l’incontro sono tornato a casa.
Prima dello spettacolo ero a casa.
Sono a casa e mi sto preparando per andare a vedere uno spettacolo.
(A me non interessa sapere cosa vado a vedere, non leggo mai la sinossi, cerco il più possibile di arrivare in stato di totale povertà davanti all’artista)
Sono in auto e mi sto dirigendo allo spettacolo e penso: sono 16 anni che conosco Francesca, tanti, molti. Sono passati tanti anni, e adesso che ci penso bene non tantissimi da quando ci siamo visti per la prima volta a Ferrara. Ricordo perfettamente il suo quaderno. Ricordo benissimo i suoi disegni, ricordo benissimo quello che pensai quella volta.
Sono in teatro e sto per entrare a vedere lo spettacolo. Incontro molti amici, gente del teatro e gente del fuori teatro. Incontro abitanti e sconosciuti. Siamo molti.
Sono dentro il teatro e mi siedo davanti. Valeria mi chiede: “dove ci sediamo?” E prima che il mio pensiero elabori una risposta la mia voce in totale autonomia dice “davanti!”.
Sono seduto davanti, a sinistra Mariangela a destra Brenno. Mi sento bene.
Francesca sbircia da dietro le quinte. Brenno mi chiede: “chi è Francesca?” E io gli rispondo “quella lì, è simpatica, dopo te la presento”. E’ lì che sbircia. “Ma non si dovrebbe sbirciare!” mi dice Brenno. Rispondo “infatti, non si dovrebbe…”. Lascio che sia lui a decidere dove mettere quello che Francesca fa, dice, e mostra. E’ un momento così bello che non mi va di contestualizzare con un indottrinamento storico da padre che ne ha viste tante, e quindi lo seguo e penso “ma perché sbircia? Non dovrebbe farlo… strano”… mi sento ancora meglio!
Inizia lo spettacolo, e nel giro di pochi minuti mi ritrovo da essere seduto a casa ad essere seduto in teatro, e nonostante il tempo in teatro sia un elemento variabile, anche lo spazio si piega e l’artista, che di solito resta in scena, è in carne ed ossa sulle mie ginocchia, leggera come una piuma, pensante come una tonnellata di piombo.
Lo spettacolo è uno spettacolo vero. Sia nella forma che nella durata. Non do giudizi. Non voglio.
Dopo aver assistito allo spettacolo, ho assistito ad un incontro con gli artisti e la direzione del teatro.
Dopo l’incontro sono tornato a casa.
Ora sono a casa, il giorno dopo e sto scrivendo questi appunti.
Nel Nido c’è un altro Nido, e tutto il senso che il teatro ha era lì, ieri sera.
Ieri ho assistito ad un miracolo, non so quanti se ne siano resi conto.
Ieri ho assistito ad un momento che mi mette in forte crisi, personale e professionale.
Ieri finalmente qualcuno ha caricato il teatro del suo più profondo senso, donare all’uomo il pensiero.
Non il sistema teatrale, che è un’altra cosa, ma il Teatro.
Non dobbiamo confondere i luoghi teatrali con il Teatro.
Ieri non sono andato in un luogo teatrale, anche se molte persone erano con me spettatrici in un luogo teatrale. Io no.
Ero a Teatro.
Il teatro o il pensiero, o il nido, dove chi nasce ritorna e di quel luogo ne fa altro nido dove altri nasceranno.”

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