Gambe nude di una persona che affonda i piedi nella terra, circondata da radici, foglie secche e terreno smosso, in un ambiente naturale e selvaggio

SENTIERI: diario aperto tra bosco e corpo – capitolo 0

on 25 Giugno | in News | by | with No Comments

L’antefatto

Prima dell’inizio di “Esercizi di Mondo” c’è una lunga storia.
In questa lunga storia c’è un punto di svolta.
Una piccola illuminazione. È avvenuta durante una residenza di riflessione al Teatro Dimora.
Per aprire questi diari iniziamo dunque con un salto indietro nel tempo, con un prologo.
Sono racconti intimi presi direttamente dal mio diario personale, tenuti come traccia dei pensieri e delle pratiche.

Francesca


Dimorare

mercoledì 3 agosto 2022
Foresteria / Stanza tripla accanto alla cucina.

Sono arrivata Qui.
Un Qui intenso come il corpo.
Come vestire il proprio corpo quando il corpo si sente proprio.
Tornare significa riconoscere la pendenza della discesa per il Teatro ed è come scivolare in un abbraccio che rende presente ogni millimetro di pelle.
Arrivare qui é l’immergersi in un liquido di consapevolezza che pervade pori e fori e crea silenzio. Un raccoglimento che mi ricorda quello dell’apnea in oceano, che non conosce noia.
Penso a questa frase di Gordon Hempton:
“Il silenzio non è l’assenza di qualcosa, ma la presenza di tutto.”
Ora: solo i grilli.
I pensieri si distendono. Si scavallano, come se fossero arrivati in uno spazio più ampio di quello in cui erano contratti, costretti, castrati. Dita dei piedi liberate dai tacchi dopo la festa.
Questo Spazio è il Tempo.

Ora:
La schiena sul materasso tiepido.
Le gambe perpendicolari, si svuotano appoggiate al muro.
Un’abat-jour accrocchiata nastrando la torcia della bici alla scaletta del letto a castello.
Un libro di Jenny Odell.

Prima:
Stamani ho conosciuto una di quelle persone che ti fanno tornare la fiducia nella politica. Forse mi aiuterà con la mia Utopia di creare una Città cinetica.
Troppe Utroppìe. Poche utopie. Scancelliamo le U dalle Utopie.
O almeno, rendiamole minuscole. uTOPIA.
Penso a come uso le stanze.
Come sarebbe ripensare la demarcazione degli spazi domestici?
Fare questo atto di libertà. Non avere più le istruzioni per l’uso della cucina, del bagno o della camera da letto. Forse partono e si incontrano qui coreografia e architettura: reinventare cosa fare dove. Riscrivere le prassi del quotidiano.
Forse per questo sono sempre stata abusiva.
(Mi piace la parola abusiva anche se è sbagliata per ciò che intendo. Ovvero: è anch’essa abusiva. È un’impositrice. Non parlo di abuso nel senso di violenza ma di uso deviato. Ab-uso. Usare male, fuori dalle regole, deviarne l’uso.)
Forse per questo soffro così tanto nelle città. Le città sono spazi regolamentati, coreografati, che disciplinano i corpi.
Questo luogo è indisciplinato, è una Dimora.
Cerco “dimorare” su internet:
”Abitare più o meno stabilmente in un luogo; trattenersi, restare, indugiare.”
ETIMOLOGIA dal latino demorare, variante di demorari, derivato di morari ‘indugiare’, con prefisso de- rafforzativo – da mora ‘indugio’.
Dimoro se ho il tempo di indugiare, se ho il tempo di perdere tempo.
Forse è per questo che non si può dire se il dimorare sia un abitare in via permanente o strettamente provvisoria: perché in quel piccolo margine di poesia che ogni parola conserva il dimorare non è una questione solo di tempo, ma di tempo perso.
Dimorare è stare nella contemplazione, dunque.
Quando il presente si dispiega la durata diventa relativa.
“È ora di restituire eternità agli istanti” scrivevo per Manifesto Cannibale.
Eccomi Qui, nel Tempo.
Buona notte.


Mancinerìe

giovedì 4 agosto 2022
Teatro Dimora di Mondaino / Stanza da letto tripla accanto alla cucina.

I pensieri sgorgano nitidi nella testa, scriverli arriva dopo. Scriverli è come sbagliarli.
È come cagliarli in una traduzione, tradirli in un’eternità.
Eccole qui: parole appena sbagliate.

Rispetto le regole della luce: mi sveglio all’alba, con il sole e il vibrato acutissimo delle zanzare.
Le zanzare che ieri mi hanno regalato il piacere di grattarmi e il costante desiderio alimentato dal prurito.
Quei punti attrattivi, brulicanti sono qualcosa di simile all’ossessione consumistica. Fulcri di pubblicità, messaggi persuasivi: grattami grattami grattami grattami pensami grattami grattami grattami…
Sono le sei. Scrivo di fronte alla chioma dell’albero su cui si affaccia la finestra. Scrivo a mano (questa è una trascrizione, nella scrittura a mano non c’era solo parola, c’è gesto, c’è danza).
I suoni degli uccelli hanno sostituito il canto dei grilli e i canti segreti dei pipistrelli. Marcature, messaggi, corteggiamenti, sonar. Un farsi spazio, un farsi confine, un dirsi per esistere.
Sono graziata dal non capire nulla. Puro suono.
Talvolta silenzio, visto che non sentiamo gli infrasuoni dei pipistrelli, né il loro battito d’ali leggerissimo. Sono spettri nella nostra percezione. Forse è per questo loro stare al bordo dei nostri sensi che li associamo all’orrore, alla dimensione fantasmica.
Ciò che c’è ma non c’è.
Ciò che non c’è ma c’è.
Questo ci inquieta.
Ma ogni cosa ha un modo di esserci e non esserci al contempo.
Sarà il pensiero della mia sparizione imminente che mi accompagna.

Sono nella stanza in cui dormivo durante la residenza di creazione di Sylphidarium e Benvenuto Umano.
E forse durante il progetto di formazione “Innesti”.
Durante <age> qui invece avevamo “confinato” le tre ragazze del cast per arginare gli impeti ormonali dell’adolescenza… (inutilmente, of course).

Un’idea:
E se qui all’Arboreto ci fosse un diario collettivo in cui ciascuno porta avanti un pezzetto di racconto? Diario dei cuori nomadi. Senza ego, senza nomi. L’abitante, l’individuo mutevole, il “condividuo” che si reincarna costantemente in questi spazi. Anime che trasmigrano nello stesso corpo. Inversione geografica della reincarnazione.
Come un lasciare messaggi nella bottiglia. Lettere agli sconosciuti.

Un esercizio:
Guarda qualcosa di irrilevante. L’angolo di una mattonella, un segno sul muro, l’erogatore dell’igenizzante per le mani.
Dagli un titolo importante.

Teatro

Aprire e preparare il teatro la mattina è un lungo rito.
Accendo la corrente, il mixer, i dimmer, apro ogni finestra, sistemo gli oggetti, il palco. È come svegliare con gentilezza un corpo.
Medito, seduta sul cuscino, ai bordi della sala.
Il corpo si fa subito rarefatto. Nel buio sotto alle palpebre sparisce l’illusione della compattezza, di essere una forma.
Sono una costellazione, una partitura di sensazioni.
Medito su questa terra che mi sostiene, sul bosco sotto ai miei ischi, sui detriti di mondo che si rimescolano. Seduta sulle macerie.
Ascolto il respiro e sento lo stomaco. Ho fame. Respiro e fame sono nello stesso luogo. Forse la nostra attenzione funziona per zone, o forse la parentela non è geografica ma funzionale: cibo e respiro sono entrambi nutrimenti, carburanti.

Dopo la meditazione mangio un po’ di mirtilli. Ciascuno ha un gusto diverso. Hanno identità singole, personalità, sorprese, forme e sapori differenti. Sono come individui. Sono moltitudini.
Penso che questo non succede con frutti più grandi ma subito mi contraddico. Anche all’interno dello stesso corpo ci sono zone diversificate: nell’Ananas la parte più dolce è quella lontana dalle foglie, nel melone e nell’anguria la zona più interna, nella pesca quella più esterna…
Anche noi siamo così: diversificati, mutevoli, mai compatti, mai costanti.

Metto un album di Pauline Oliveros dal teatro e vado sotto al portico a fare la meditazione camminata.
“Deep Listening” sembra un unico suono dilatato nel tempo, come un viaggio nelle molecole di uno sbadiglio. Come quando Piero Angela rimpiccioliva ed entrava nell’orecchio umano: veniamo invitati lì ad ascoltare il suono dell’aria.
Mi accorgo che i pensieri mi portano via sempre durante il passo della gamba sinistra. In generale porto più attenzione al lato destro, sento più dettaglio. Il lato maschile, il lato attivo. Potremmo dare ancora una volta la colpa al patriarcato… questa destrimanìa imperante.
Così mi dedico un po’ al sinistro: mancinerìa.
E poi penso al sinistro anche quando è il destro a fare il passo… e mi accorgo dell’evidenza: a rendere possibile il passo destro è il piede sinistro a terra. È il sinistro il vero attore mentre il destro fa il protagonista librandosi nell’aria.
Se non ci fosse il sostegno, il radicamento e il costante assestamento della gamba di terra non ci sarebbe passo. Sempre alla ricerca dell’equilibrio, mai sazio nella stasi. Un flusso di informazioni gestite con sensibilità. Il destro parla, vuole, va, il sinistro ascolta, risponde, permette. L’atto generoso del gregario che tira la volata.
Il principio ricettivo. Il mondo attorno, sotto, dietro ad ogni protagonista. Preziosissima ombra. Luna nelle maree dei passi.
Dov’ero mentre il piede sinistro trovava il suolo e io pensavo ad altro? Quel passo è come se non fosse esistito. Un piccolo teletrasporto nel futuro, un intervallo vuoto. Spesso è proprio così che passiamo la nostra vita: distratti. Vite lunghe e distratte.
Ci preoccupiamo di sopravvivere il più possibile e spendiamo il tempo a non esistere, nell’inconsapevolezza, ingobbiti sullo schermo dello smartphone. Smart phones, dumb people.
Vivere di più significa espandere la nostra consapevolezza. La vita non va allungata, va allargata.
Danzare, muovere il corpo sospeso mettendo tutta l’attenzione alla base di appoggio. O, ancora, micromuovere la superficie di appoggio e far spostare il resto di conseguenza. Sismico. Terremoto. Invertire il ruolo di ascoltatore e voce, passare all’altro il bilanciere.
Le mie orecchie spalancate che sfilano dalla tua bocca le parole.
Nota: come si trasforma lo sguardo mentre ascolto il suolo?
E’ come se gli occhi mi cadessero dentro, come se precipitassero in un pozzo fino in fondo al corpo. Cadono a terra, ma dall’interno. E restano nei piedi, come sassi nelle scarpe.

Salgo sul palco. Il corpo mi fa male. Tendo a fare finta di niente, a fare “nonostante”.
Non lo farò. Starò in questo corpo dolente, parlante. Sarò il piede sinistro che ascolta, il segreto del suo volo.
Floorwork. Rotolo a terra. Da destra verso sinistra. Per un ipotetico spettatore vado in direzione contraria alla scrittura occidentale. Questo è il verso che sento necessario, come se ci fosse una corrente che scorre in queste strisce di linoleum, come il verso dei vortici che cambiano nei due emisferi.
Queste strisce di linoleum sono state spacchettate nel 2008 quando sono venuta qui con uno dei miei primi lavori (Eye Was Ear) per il premio Giovani Danz’Autori.
Antonio Rinaldi lo tirava fuori dagli scatoloni. Odore di piscina gonfiabile, di canotto. Candido. Perfetto. L’inizio della mia carriera: una pagina bianca.
Quante vite si sono scritte su questa pagina.
Si vede che è stato tenuto con cura ma i segni sono inevitabili. Cicatrici, tatuaggi, passaggi: Tempo. Tanti corpi, tante danze. Chissà i Watson del nostro spettacolo “Sherlock Holmes” come ricostruirebbero la coreografia di quasi quindici anni che si è consumata qui. Come si legge questo spartito di spazi.
Quanta vita si è scritta sulla pagina del mio corpo?
Quante ossa rotte, quanti capelli cresciuti e rasati, quanti chili presi e persi, la forza e la mobilità trasformate, la fluidità scambiata con il controllo.

Guardo in alto, vedo la graticcia da cui Carmine mi scattava le foto per i “10 miniballetti”, nel 2015. Il palco pieno di piume dei cuscini di mia nonna. Piume rimaste per anni nascoste negli anfratti del teatro, dei teatri che abbiamo attraversato.
Nella scomparsa intrinseca ad ogni danza, nel suo connaturato disfarsi nel farsi, c’è sempre qualcosa che resta. Depositi invisibili, piume, graffi al suolo, graffi nei pensieri di chi guarda.

Dalla stessa graticcia filmavamo il training nel 2011. Assieme a me il primo nucleo della compagnia: Andrea Amaducci, Nicola Galli, Angelo Pedroni…
Ad un certo punto Andrea mostra il culo alla telecamera ribaltandosi sulla schiena, in aratro. Nello stesso momento compaiono i genitori di Angelo dalla porta. Erano venuti a farci una sorpresa.
Erano gli anni degli scherzi, delle figuracce e delle collezioni di aneddoti. Era bello. Soffrivo anche allora ma ora ricordo principalmente le cose divertenti. Ridevamo. Molto.

Ricomincio a danzare e il pensiero muta. Mi piace come penso mentre danzo.
Danzare è una forma del pensare.
(Anche scrivere lo è.)
Ma danzare libera il pensiero, gli fa spazio, si fa spazio, fa lo spazio.
Scrivere ordina il pensiero, lo disciplina, lo approssima.
Lo ferma, per sempre.
(Dove sta la parola parlata? La voce?)
Per danzare invece devi essere pronta a perdere i pensieri per sempre.
Si pensa sempre con il corpo, comunque.
“Non fidarti di quei pensieri che non sono una festa anche per i muscoli.” Dice Nietzsche.

Potrei fare una mappa dell’Arboreto con tutti i ricordi che si fanno luogo: l’asciugamano di Andrea Brunetto che marcava il territorio dei camerini in fondo, la Berta (il cane mio e di Angelo. Ndr) che fugge invasata nel bosco ed Angelo che la richiama tentando di emettere un fischio ad infrasuoni con le mani, la passeggiata silenziosa con gli adolescenti di <age> a guardare le capre negli occhi squadrati e ancora la loro canzone in cucina con Paolo Brancalion commosso, il letto sopra a Daniel Blanga Gubbay durante Aksé e il training di Marco Valerio Amico con la musica di Eminem, fare l’amore nel bosco, il calabrone che ha ribaltato Simone nella doccia e che Stefano ha sterminato con l’infradito (la sua arma fondamentale), il lancio dei cuscini rossi con Carmine, la cena assieme all’incontro di Cresco raccontandoci il primo spettacolo visto della nostra vita…
Quanta vita Qui.

Faccio yoga nel porticato sul bosco. Alcuni operai trafficano con le condutture dell’acqua e mi sbirciano attraverso alla porta. Dedico loro un paio di verticali.
Sono in Sirsasana e vedo precipitare foglie e fiori a terra. Li vedo a testa in giù e provo ad illudermi di vederli levitare e incollarsi ad un soffitto di chiome.
Ribaltare questo pensiero mi aiuta a rileggere la forza di gravità…
Non è caduta, non è il basso. È solo attrazione al centro. È solo magnetismo. È un dialogo con una calamita. Un negoziato tra due partner potentissimi. Triangolo poliamoroso tra Terra, Cielo e Tu.
Ogni nostra postura è dialogo universale tra disperdersi e restare, ergersi e crollare. La legge dell’attrazione, di ogni attrazione.

Sono in Savasana, la posizione del cadavere.
Chiudo gli occhi e sento gli insetti camminarmi addosso, atterrare sulla pelle. Sono il loro Gulliver. Che fatica scollegare quel senso di attività e volontà ed accettare di essere veramente cadavere. Che facciano di me ciò che vogliono, per 5 minuti. Se fossi davvero cadavere ora offrirei il mio corpo come un pasto. Provo a stare immobile e ad accettare questi ospiti come degli invitati a cena.
Sono io la vostra cena.
Prendete e mangiatemi tutti.


12 ore statiche

venerdì 5 agosto 2022
Cucina della foresteria

Come un animale.
Ho dormito 12 ore. Il doppio della mia norma dell’ultimo anno. Il triplo della mia norma dei due anni precedenti.
Mi sono comunque alzata alle solite 4:45 ma poi è ricominciata un’altra notte, luminosa e in qualche modo più proibita.
Cosa c’è di più improduttivo – capitalisticamente parlando – del sonno?
E di più creativo, immaginifico, rigenerativo, virtuale, vulnerabile, supereroico?
Non ricordo bene i sogni, ma ad un certo punto c’era una forma geometrica ricavata con l’anguria, senza buccia. Apparteneva a qualcuno, forse a Fabio Biondi.

Nel letto, ad ascoltare la chiamata al letargo, ho immaginato di essere un animale. Vorrei vivere un giorno da animale.
Senza orologi, senza linguaggio, cercando di boicottare la normativa quotidiana e di ritrovare solo puro istinto.
Domani arriverà Carmine e gli proporrò di fare un giorno senza orologi.
Quello della cucina, qui, è fermo alle 7:49 e 34 secondi. Chissà se era una mattina o una sera, chissà se ha rallentato piano dilatando i minuti e ingannando gli ospiti o si è congelato all’improvviso come i corpi di manifesto cannibale.
Ripenso a questo mio ritiro nella progressione delle ultime creazioni:
accelerare e rallentare
stare immobili e resistere fermi
dormire e sognare
poi allontanarsi e latitare
farsi fantasma e confessare
disapparire.
Eccoci all’ultimo stadio: sparire.
Leggo di una performance di Pilvi Takala in cui si fa “assumere” come tirocinante da un’azienda e passa il suo tempo ferma a fissare il vuoto dicendo che sta pensando… e genera il panico nel mondo circostante diventando una minaccia alla normatività comune.
Amo questo agire.
È un gesto provocatorio e gentile al contempo. Non solo, è anche un far emergere quelle regole non dette che tutti stavano applicando in un dato contesto e accorgersi della sua rigidità ottusa.
Il fastidio che genera credo sia in qualche modo parente della xenofobia o qualsiasi relazione con una “scomoda” alterità.
La differenza è sempre scomoda?
Allenarsi a comportamenti irriconoscibili è anche aprirsi all’alterità. Alterarsi.

Stamani lettura e danze senza grandi piani. Lascio fluire ed è difficilissimo: valuto costantemente se quello che sto facendo ha valore. Se peggioro o miglioro, se è utile e produttivo, se è quantomeno allenante. Cerco di disinnescare questo pensiero ma è come se la via del piacere fosse qualcosa che non puoi rincorrere o cercare. Devi solo imparare a stare. Quando abbandoni il resto, anche la volontà del piacere, allora forse appare. Ed è in un gesto. Un gesto qualsiasi. Nella tenerezza con cui concedi al piede di vacillare.
Piccole compassioni del cedimento che si coniugano alla gioia del gesto tecnico. Non un virtuosismo che dimostra un valore, ma un parco-giochi del corpo, dove stare a testa in giù o piroettare è come fare un giro sulle montagne russe. Dove meravigliarsi del dettaglio del movimento dentro al corpo, di una certa nitidezza articolare, una presenza viscerale. Sentire di più.
“Sentire è già amare” dice Thich Nhat Hahn.

Due cose molto belle:
Un duetto con un ragno casualmente sincronizzato ad un brano di Kae Tempest.
Ci studiamo. Osservo il suo molleggiare, la sua coordinazione, le sue pause.
Prendo coraggio per farmi attraversare ma appena mi sente cambia direzione velocissimo.

Perimetro la sua scena con il mio corpo grande, ne incanalo i percorsi. Sto facendo un’azione di potere. Provo a lasciarlo libero e a reagire a lui. O lei.
Forse anche per il ragno questo interloquire fatto di spazializzazione e di ritmo è danza. Forse sente che la sua vita è in pericolo.
Forse, proprio per questo, è danza.
Ogni danza celebra la morte, l’impermanenza.
Mi rendo conto solo ora, trascrivendo l’esperienza, che la giornata iniziava pensandomi come un animale…

Mi perdo in un po’ di movimento tipico – quell’abitudine dalla quale cerco di liberarmi come con una ragnatela appiccicata sulla schiena – e ad un certo punto la mia attenzione cade sulla gradinata vuota di fronte. Vuoto di persone. Ripenso a quando ero qui in creazione con 10 miniballetti, al fatto che ero seduta vicino alla prima vetrata di destra quando ho trovato le musiche giuste: Frescobaldi. Clavicembalo. Sei correnti. Perché è di Ferrara, perché si chiamano correnti e questo richiamava l’aria, ma soprattutto perché muovevano il mio corpo in un modo insolito. Questa musica rinascimentale diventava in me un sincopato che non aveva nulla di antico.
Stavo schivando il mio stesso corpo in moto.
E così provo a fare una cosa terrorizzante: un filato di 10 miniballetti.
Non li provo, né li vedo o li ripasso dall’ultima data: Longiano Gennaio 2020. (Non sapevo, quando ho scritto questo diario, che sarebbero tornati in scena proprio su questo palco cinque anni dopo. Ndr) Poco prima della pandemia. Qui vicino. La ricordo benissimo. Nel loro corridoio c’è la mia foto autografata del salto da uccellino nero che sparisce nel fumo. Ricordo il colore nero nella doccia, che colava via dal mio corpo mentre Carmine mi lavava. Ricordo anche che ho mangiato una scatoletta di tonno e fagiolini in barattolo come cena post spettacolo, sul tavolo del camerino con la pelle ancora grigia mentre Angelo e Carmine caricavano il furgone. Cena tipica del mio bunker antiatomico, la stessa cena che consumavo sui letti di albergo di Parigi, Sarajevo, Lima… Sola, apparecchiata su un asciugamano bianco del bagno con un origami di carta igienica come tovagliolo. Mi manca il tour. Non mi manca l’ascetismo a cui mi sono sempre condannata, ma mi fa tenerezza.
Anche ora ho mal di testa. Temo sia il caldo. Ora sono sul tavolo sotto al porticato della foresteria.
È stato bellissimo sentire i ritmi, i dettagli dei 10 miniballetti ancora addosso. Sentirli possibili. Ritrovare la punta degli indici ad occhi chiusi, soffiare via la frangetta quando scendo dalla verticale sulla testa, e prima di fare la camminata in verticale ripetermi la frase del video motivazionale di football americano di Marco Calzolari (esemplare adolescente di <age>) che ci caricava nei riti propiziatori pre-spettacolo.
Cercare l’infantile, il sensuale, l’ironia, la sincerità delle mie parole bambine, la vulnerabilità della scena. Mi manca. Terribilmente.
Mi manca entrare sul palco e guardare il pubblico come se fossero una classe di studenti che accompagneranno i prossimi anni della mia vita. Lasciare che pensino che sono una sfigata e al tempo stesso sapere che a breve verranno conquistati nonostante i calzini di lana scomposti e la tutina rossa da scema.
Ero brava. Ora sono sospesa. Ora sto per sparire.
Chissà in che forma, con quali ali ritornerò. Se ritornerò.
Chissà se da queste piume perse e incenerite rinascerà nuova fenice.
Mi sembra incredibile quanto davo per scontata l’eccezionalità assoluta di quelle avventure, il loro brivido e privilegio. Essere nei camerini di Taiwan e prepararsi con tutta la dedizione possibile per incontrare nuovi sguardi. Tante olimpiadi, tante lauree, tante feste di compleanno e lutti e nascite.
Una vita alla massima intensità.
E ora, per un po’, Niente. È questa la vita.
Resto seduta qui. Mi telefonano e mi propongono cose che mi invogliano. E io dico No, grazie. Poi.
Poi? Chissà.
Scrivo chissà ma evidentemente devo essere ottimista, visto che durante la prova ho segnato questa nota:

Per il futuro dei 10 miniballetti:
Alzare il volume dello stacco dei tasti del clavicembalo alla fine di ogni brano per evidenziare il rilascio dell’apnea asfittica del mio corpo.

Da un po’ di anni mi accompagna – metodologicamente, didatticamente, personalmente, filosoficamente – l’importanza del pensiero durante il movimento. Come penso quando sono in scena, come penso mentre mi muovo. Non solo a cosa, ma come si muove il mio pensiero. Ridurre a quasi zero il movimento del corpo nella meditazione è un passaggio fondamentale di questa analisi.
Quello che faccio in sala con le artiste e gli artisti del collettivo è proprio questo: trovare una trasparenza del pensiero, allenare il pensiero che abita i corpi, trovare la chiave giusta con le parole giuste per entrare nel pensiero delle persone e tramite quel varco farsi corpo nel corpo dell’Altro.
Pensieri che possono farsi corpo esattamente per quella persona in quel momento: cosa dire loro perché le mie parole siano già nervo, panorama, mondo.
Ogni tanto mi sento una sciamana, ogni tanto un’allenatrice nello spogliatoio prima di una partita. Non un burattinaio… questo processo passa attraverso la consapevolezza e la complicità dell’altro. Mmmm… quasi sempre. Ogni tanto devo ingannarli per poter trovare effetti empirici inaspettati. Ma poi la verità viene ricostruita e il gioco confessato. Quindi ogni tanto devo raccontare loro che sulla schiena hanno un paracadute, quando so benissimo che hanno le ali.
Ricordo quando stavamo facendo <age> e durante un incontro con il pubblico qualcuno ha spiegato a Giulio Santolini (adolescente di <age> che ho conosciuto durante un workshop nella sua classe delle superiori e che mi ha detto “ho dei pregiudizi nei confronti della danza contemporanea, ma voglio aprirmi la mente”) che in scena non teneva i piedi paralleli, ma a papera.
In <age> c’era un patto di fiducia che rendeva necessario che io non squadernassi tutto agli adolescenti. Quell’en dehors naturale per me era un segno perfetto della sua individualità e non avevo nessuna intenzione di ammaestrare la sua postura. L’allineamento delle gambe lo curavamo nel training, dove mi preoccupavo della salute del loro corpo. In scena doveva essere solo poesia. Rispettosa, coraggiosa e storta.
Ogni tanto le persone non si rendono conto del potere di una frase, di un’informazione.
Con Giulio siamo dovuti passare al livello più complesso della doppia consapevolezza, cercando di non perdere troppa innocenza: ora sapeva di avere le gambe “sbagliate” e sceglieva di stare a quel gioco.
Oggi è un attore con un premio Ubu addosso e una carriera meravigliosa. E i piedi a papera, q.b.


La bellezza è il processo di guardare il mondo

sabato 13 agosto 2022
Casa mia

Ho ricominciato a parlare e ho smesso di scrivere.
Questi pensieri sono a posteriori, sono il deposito che ho addosso.
Li raccolgo e li esercito come impressioni di luce sulla retina. Nella mia dimora sfoglio l’album dei giorni scorsi tatuato nel corpo, nel pensiero.
Quegli istanti non hanno un ordine, sono in tempi esplosi.

Mi ha raggiunta Carmine e il dialogo che stavo intrattenendo con la scrittura ha preso una modalità più socratica. Sorrido.
Letture ad alta voce, discussioni che accompagnano azioni quotidiane, un filosofeggiare lavando i piatti.
Ho scoperto che nelle meditazioni mattutine il suo pensiero si rivolge al passato mentre il mio al futuro imminente. Abbiamo abbandonato i telefoni per gran parte del tempo.
Quando la bellezza era insostenibile arrivava quel pensiero: fai una foto.
E invece no, nessuna foto, nessuno scampo, nessuna illusione di poter trattenere o rivivere quella bellezza. La responsabilità di goderla è tutta tua, tutta nel presente.
E così ci siamo messi a scattare foto con gli occhi, ma proprio come se fossero foto vere. Ci mettevamo anche in posa.
Quelle foto sono qui, dentro di me. Molto più nitide delle altre memorie. Sono l’album che posso sfogliare sempre… a patto di ripassarlo ogni tanto. Tenere il muscolo della bellezza ben allenato.
Abbiamo composto una classe di movimento su un album musicale.
Era da tantissimo tempo che non avevo a che fare con i conti e la coreografia nel senso più artigianale del termine. È stato divertente. Mi sembra sempre che mettere il movimento sulla musica non sia abbastanza e al contempo mi sembra che il mio lavoro sia proprio un altro.
Quando sono venuti Fabio e Paolo per l’intervista abbiamo parlato anche di questo: forse sono più una drammaturga che una coreografa. Ammesso che abbia un senso darsi un nome. A patto che non diventi il contenitore di cui prendere la forma.
Per l’intervista abbiamo messo una sedia vuota sul palco, la mia borraccia ed una mela priva di un paio di morsi. Un rilevamento dell’impronta dentaria riconoscerebbe le mie arcate asimmetriche e il mio morso quasi lussato.
Paolo mi ha chiesto di pensare a delle buone domande da fare a me stessa su questo strano periodo creativo. La prima domanda che volevo pormi è “Quali sono gli interrogativi che stanno alimentando?”.
La seconda é stata “Cosa significa per te sparire?”
E la terza: “Come vedi la figura dello spettatore?”
È stato importante parlare al loro ascolto, nonostante fosse destinato ad una registrazione. Ed è stato importante arrivarci impreparata, nel senso più permeabile e umile possibile. Essere reattiva al presente, lasciare sgorgare, reagire.
Ogni tanto i pensieri mi circolano in testa per troppi giorni e allora quando si fanno parola sono già aria viziata, ricerca dell’originale, colore sbiadito.

Gli ultimi giorni ci hanno raggiunti anche Teodora, Angelo, Marco e Stefano.
Siamo andati in paese dal bosco la notte.
Marco non voleva essere l’ultimo della fila… lo sa la schiena quando sei l’ultimo della fila. C’è un formicolio epidermico di allerta, una tensione al dietro. Il mondo alle spalle prende finalmente tridimensionalità.
Abbiamo ricordato gli scherzi fatti agli adolescenti di <age>. Avevo detto loro che c’era un allarme cinghiali e che per evitare che i nostri ferormoni li attraessero dovevano ricoprirsi la testa con la pellicola trasparente e fare uno specifico suono scendendo la sera verso il teatro… Io e Angelo piangevamo dal ridere spruzzando di nascosto un mix mortale di Autan e deodorante sulla pellicola raccontando che era uno spray speciale che ci aveva dato la forestale. Quella sera abbiamo fatto le prove con Luca che ha tenuto tutto il tempo la plastica in testa, che non si sa mai.
Esilarante. Con quanto affetto ricordo questi momenti di pura goliardia…

Abbiamo giocato a “The mind” al bar di Mondaino.
È un gioco collaborativo di telepatia dove il tempo – ovvero la durata e la sua densità – è il sistema per comunicare. In realtà si tratta di spostarsi ad un piano di comunicazione più sottile e subliminale, di sottrarsi alla comodità del linguaggio per alzare le antenne su segni più piccoli e raffinati che possono essere colti dall’intuito. Momenti magici di cose impossibili e un gran bell’allenamento all’attenzione e alla relazione.
In questi giochi mi sembra ci sia un racconto così intimo di cosa significa per ciascuno di noi rischiare, difendersi, desiderare, abbandonare, collaborare, nascondersi, prendersi la responsabilità…
Sotto lo stesso porticato abbiamo giocato infinite volte all’amico del giaguaro (il mio preferito) e a calcio balilla…
Ricordo la prima volta su quel balcone con Marco Valerio Amico e qualche Spritz, con i discorsi distesi all’ora del tramonto.

La prima notte, quando sono arrivati tutti aveva una vibrazione diversa. Uno stato di eccitazione e proliferazione del pensiero simile a quella prima di una nuova esperienza. Marco ha raccontato di essersi sentito allo stesso modo e anche Carmine era nella mia stessa piacevole inquietudine.
È la mia maledizione delle residenze creative: il sonno non è pausa ma accelerazione di ogni processo.
Mi alzo all’alba e scendo in teatro. Preparo i pensieri e una sequenza di movimento, poi corro su e infilo a tutti un bigliettino sotto la porta che dice:
“Buongiorno!
Produciamo silenzio. Ascoltiamo, osserviamo, stiamo nella contemplazione, telepatizziamo.
Ovvero: non parliamo, non usiamo il linguaggio dei segni e abbandoniamo il telefono in stanza.”
Abbiamo fatto meditazione assieme sotto al portico sul retro del teatro e poi una lunghissima classe di danza che ha impegnato l’intera mattina.
Il volume liquido del corpo.
L’ecologia dell’energia cinetica.
Non prevedere l’effetto di un pensiero sul movimento. Non pianificare il gesto ma osservarlo come spettatori, meravigliarsi di un corpo nuovo.
E poi la mossa del minestrone, i battement tendu più adesivi della storia e anche qualche giro di Can Can. A braccetto.
Abbiamo finito sudati. Carmine, Angelo e Marco erano verdi per i troppi giri.

Nel pomeriggio ci siamo riuniti per immaginare assieme il futuro.
L’utopia di una Città Cinetica. Di un luogo di residenza e vita che sappia diventare polo magnetico in cui condividere non solo performance e formazione ma anche la trasformazione possibile nei processi creativi. I superpoteri delle pratiche performative da usare nel quotidiano.
Io ho raccontato le idee e tutti hanno contribuito con domande, considerazioni, provocazioni generose.
Questa volta è un sogno molto grande quello che vogliamo realizzare. Non è ambizione, è urgenza e forte desiderio di senso, tempo, spazio, condivisione.
Spero di riuscire un giorno a farcela. Fondare la città dei corpi.
È una cosa difficile, ma io sono sempre stata molto più brava per le cose difficili che per quelle semplici, o addirittura normali.
Una condanna, un dono spigoloso, una fragilità quotidiana, una forza ineluttabile.

Ho passato dieci giorni con la paranoia di chiudermi fuori ed è successo appena siamo diventati 6.
Chiusi fuori dal teatro. Le chiavi rimaste dentro.
Aspettiamo l’ultima mattina, quando verrà la Patti per le pulizie.
Io mi ero fatta la doccia e avevo tutti i miei effetti personali nel bagno perché il pranzo era pronto e sono salita di corsa.
È bello stare senza le cose che credevi fondamentali, restare fuori.
È un esercizio di libertà.
Andiamo a passeggiare nel bosco e troviamo una casa con tantissime arnie e delle sculture fatte con radici ribaltate. Hanno qualcosa di affascinante e orrorifico. Sembrano in qualche modo scheletri… ma è un sentire che va oltre la somiglianza della forma: hanno in comune con lo scheletro il fatto che sia esposto qualcosa che è coperto dalla vita del corpo. Nessun corpo vivo è così visibile nello scheletro e nessun albero vivo è così visibile nelle radici. (Questa affermazione è sicuramente falsa… ci saranno alberi con le radici esposte… e ho visto corpi vivi con lo scheletro decisamente troppo visibile, ma è proprio lì che incarnano l’immagine della morte)
C’è anche una Fiat Tempra con i finestrini abbassati completamente posseduta dai rovi.
Il tutto ha un’immaginario che fluttua tra “The walking dead” e le sculture mortifere della serie “Hannibal”.
Corriamo su una collina, nei solchi lasciati dal trattore sul campo di erba medica. Le cavallette esplodono in mille direzioni ad ogni passo, rimbalzandoci addosso con una grafica talmente perfetta ed esagerata che sembriamo disegni di un manga.
Carmine in testa, Angelo alle calcagna, io e Teodora dietro. Il cuore mi brucia.
Si vede tutta la valle. Stefano e Marco ci raggiungono camminando.
L’immagine è sublime. La fotografiamo con gli occhi. Eccola qui, la ricordo benissimo: i dettagli viola tra la maggioranza dorata, il rapporto tra dettagli e distanze, la sensazione di essere in cima a un pezzo di mondo e vedere tutte le cose lontane che ti fa ridimensionare tutto. Soprattutto te stesso. Piccoli, piccoli umani.
Marco controlla che non sia una “no flight zone” e attiva il suo drone. Peccato disturbare questi suoni. Drone dopotutto significa fuco o ronzio. Lo guardiamo guardarci. Inquietante.
Scappiamo di corsa per lasciare Marco da solo. Era terrorizzato all’idea di restare nel bosco da solo.
Correre in discesa trovando gli appoggi nella velocità ti da quella dose impagabile di dopamina e mal di rotule.
Ceniamo con una pizza parlando dell’irracontabilità dell’orgasmo. Provando goffamente a trovare le parole su ciò che non si sa dire. Una serie di condivisioni sulla masturbazione generano alcune idee geniali per istallazioni degne di Documenta o della prossima Biennale di Venezia.
Ridiamo molto.

L’ultima mattina è commovente. Salutiamo il teatro e il bosco con un’ultima meditazione.
Prima seduti, poi camminando ed infine inchinandoci. Il bosco ci risponde con la pioggia.
I miei occhi rispondono con la pioggia.
Condivido alcuni pensieri di Teodora e di Stefano:
Teodora dice:
“Io sono cresciuta in un posto simile a questo. Il suono del vento tra gli alberi mi è molto familiare. Adesso non vivo più li quindi non lo sento più così spesso, e ora mi sono accorta di quanto invece sia un suono familiare per me. Qualche anno fa facevamo delle interviste a dei bambini sul tempo. E gli chiedevamo come si fa a sentire il tempo. E un bambino rispose che quando senti il vento tra gli alberi stai sentendo il tempo.”

E Stefano: “Meditando raggiungo e rivivo ricordi con colori suoni e odori vivissimi. Sembra non essere passato che un momento.
E allora comprendo che il tempo siamo noi, che abbiamo vissuto cose in un ordine irregolare, che questa linearità temporale è una costruzione artefatta per poter sopportare la grandezza dell’universo. E mi sento una parte di esso.
Grazie per questa boccata di ossigeno.”

Ci abbracciamo.
Li sento vicini e fondamentali. Complici. Famiglia, di quelle più forti del sangue. Di quelle con cui ci si trasforma.
La macchina di Marco, Angelo e Teodora rientra. Io e Carmine rimaniamo a registrare il video della sequenza che avevamo creato. Volevo che fosse registrata lì.

Non importa quanti mesi o quanti anni passeranno prima di tornare, quello è un luogo in cui continuo ad essere.
Casa non è il luogo che ti appartiene, è il luogo a cui appartieni.
Sono tutti i luoghi a cui appartieni.
Il fatto che siano tanti i corpi e i cuori che Dimorano all’Arboreto non la rende meno casa mia, anzi.
È il luogo che ci permette di essere assieme ed essere nella solitudine contemporaneamente, quella solitudine vibrante e fertile.
Quella è una casa.
Grazie.

Francesca

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Gli uomini sono strade...