SENTIERI: diario aperto tra bosco e corpo – capitolo 2: inventare magie

on 12 Agosto | in Esercizi di Mondo | by | with No Comments

Inventare magie

marzo-aprile 2025

Sulle tracce di Esercizi di Mondo, arriviamo alla seconda residenza del 2025 di CollettivO CineticO all’Arboreto. Quelle di marzo e aprile sono pagine che si muovono come una danza ancora da inventare, tra gesti impercettibili e scosse telluriche, tra sudore e poesia, tra corpi in fiamme e bambini che inventano parole nuove per i movimenti. Pagine che accolgono sogni, crampi notturni, pavimenti scivolosi, magie vere e magie inventate, ricordi di pulizie rituali e coreografie mancate. Il corpo è terreno di scontro e meraviglia, il teatro si riempie e si svuota, diventa foresta, parco giochi, luogo di liberazione dei corpi, e tutto si tiene in un equilibrio fragile ma intenso.

Nella densità del tempo della residenza c’è la ricerca per Abracadabra, l’incontro con il mago Gabriel e la Magica Gilly, le prove per Manifesto Cannibale che va in scena all’Arena del Sole, la fatica, il cambiamento e a volte il cedimento, l’assenza, l’immobilità, il dolore. C’è finalmente il sole dopo tanta pioggia, perché “se puoi ballare, balla”!


giovedì 27 marzo 2025

Da quando sono tornata all’Arboreto la mia vita onirica è satura e appassionata.
Hanno anche ricominciato a sognarmi.
Camilla, da Madrid, me lo ha scritto. E Laura, come sempre.
Forse è perché “Manifesto Cannibale” all’Arena del Sole di Bologna si avvicina e i sogni si risvegliano.
Tre anni fa, mentre creavamo il progetto, per oltre un mese ogni notte qualcuno mi sognava. Ad un certo punto, con il timore di rompere l’incantesimo, l’ho scritto su Facebook. Hanno commentato altre persone dicendo di avermi sognata.
Un giorno nessuno mi ha detto niente. La sera, a cena da Stefano Sardi (il cinetico con i capelli lunghissimi e il figlio biondissimo) ho raccontato di questa strana mistica e che quello era il primo giorno in cui non avevo infestato i sogni altrui… ma ero nel sogno di Giulia, amica psicologa che ha confessato a tavola.
Dicono che nelle tribù amazzoniche i capi villaggio si accordano in sogno.
Per fortuna sul sonno non sappiamo quasi niente.
Per fortuna resta una spazio salvo dalla produzione, dal consumo, dalla prestazione e dall’ipocrisia.
Immagino un destino terrorizzante in cui i sogni sono infestati dalle pubblicità.
Vorrei vivere questi giorni pensando di fare, vedere, ascoltare per nutrire i sogni.
Che la veglia abbandoni la sua prepotenza.
Che il giorno si arrenda alla notte.


venerdì 28 marzo / Friday morning

(musica: Friday Afternoons di B. Britten)
Anche questa mattina il corpo implora sonno.
Passo le ore centrali della notte a lottare con un serpente infilato nel quadricipite. Manifestazione onirica di un crampo notturno? interpretazioni falliche estrattive? giustificata ansietta da parassiti che si presenta appena il corpo arriva nella natura e non sta nella tossica igiene urbana?
Quando suona la sveglia non riesco a sollevarmi.
Non dico alzarmi. Sollevarmi. Arrivo tremante ad una sfinge asimmetrica sui gomiti e crollo.
Misuro il tempo dai suoni dell’acqua che arrivano dal bagno. Qualcuno che piscia, uno sciacquone, si lavano i denti, la faccia, qualcosa.
La mente è fin troppo vigile ma il corpo vuoto, pesantissimo, assente.
Corpo mescolato al materasso.
Inizio a contare i minuti che mi separano dal momento in cui tre classi delle scuole elementari di Mondaino entreranno in teatro e io le guarderò con l’occhio destro, nascosta dietro all’ultima quinta.
Alla fine succede. Faccio scorrere anche io acqua ghiacciata.
Poi cacao fondente amarissimo, musica incazzata e addominali sudati.
Le mie manie di controllo si ridimensionano in fretta: i bambini entrano in teatro prima del previsto e senza preavviso. La prima immagine che vedono sono io che sto cercando di correggere la scivolosità del tappeto danza sputacchiandomi sui calzini e strisciando i piedi sul palco come una geisha assatanata.
Mi nascondo dietro alla quinta e mi accorgo che lo spettacolo è già iniziato.
Ed è iniziato così.
Una tizia sulla quarantina con capelli improbabili e calzini di lana che si strofina ossessivamente sul palco mordendosi il labbro superiore.
Niente è come avrebbe dovuto essere. Tutto è come è.
Ed è con questa realtà, con questo inizio sbagliato, questo corpo in fiamme che faccio i conti.
Piccole lezioni di vita intitolate qualcosa come: “Il senso della pianificazione quando il mondo è temporale”. Come imprevisto mi sembra simpatico.
Sbircio dalla quinta e bambini e bambine si esaltano quando mi vedono.
Sono custodi di un segreto.
È subito gioco. Bisbigliano tra loro.
Mi salutano con la manina ogni volta che spunto.
Qualcuna lo dice alla maestra, ma non con fare da spia… più come una speleologa esaltata dalla sua scoperta.
Presento una parte dello spettacolo 10 Miniballetti.
4 miniballetti e mezzo, per l’esattezza.
Applaudono alla fine di ogni pezzetto di danza.
Sento vividi i loro occhietti curiosi, i loro wow bisbigliati.
Finisco con una spaccata al rallentatore (assistita dal grip del calzino scientificamente sputacchiato) e dal pubblico arriva un “poverina!”.
Buio. Rido verso il fondale. Mi inchino. Applaudono ancora ma con meno entusiasmo che durante lo spettacolo. Con loro la convenzione non vince.
Mi fanno un sacco di domande alzando il braccio il più possibile, con tutta la spalla contro l’orecchio… quasi che alzare il braccio sia alzare la voce.
Ti fa male fare la spaccata?
Quanto tempo ci hai messo per fare queste cose?
Tu com’eri da bambina?
La sai fare la ruota che finisce nella spaccata?
Tuttə voi piano piano potete fare la spaccata.
Magari non ha la stessa identica forma, ma la vostra spaccata la potete fare.
Racconto com’è nato lo spettacolo, che quando avevo la loro età scrivevo le mie coreografie su un quaderno anche se non le sapevo fare e che da grande ho provato a metterle in scena.
Che è difficile scrivere la danza, ancora più che danzare la parola.
Faccio un gesto tutto scomposto e chiedo come si chiama.
Inventate il nome.
Mi dicono “slaimers”, “girandola”, “è un boh”.
Penso che “Boh” sia il nome perfetto.
Fammi un Boh, dico a Carmine.
Lui lo fa.
Ci diciamo che nella danza contemporanea ci sono tutti i movimenti.
Che si può inventare tutto. Che anche la loro mano alzata può essere un movimento di danza contemporanea.
Poi raccontiamo di come fermare il tempo e quando suoniamo il campanellino sono tuttə perfettamente immobili… Eccezionali. Solo le maestre inciampano.
Lə bambinə ci credono tantissimo, e diventa vero.
Andiamo sul palcoscenico assieme e lo spazio vuoto diventa foresta, parco giochi, luogo di liberazione dei corpi. Mi sembra che il loro corpo non sia ancora un nemico, come forse succede andando avanti con gli anni. Non sembra nemmeno uno sconosciuto.
Sono nei corpi. Sono il loro corpo.
Ci divertiamo molto e lascio Angelo e Carmine nelle loro mani per ricostruire usando solo le parole la coreografia che hanno visto eseguita da me.
Due squadre, due semicerchi di bambini con le mani sportivamente tenute dietro alla schiena (nella posa coreografica dell’umarell) per non mostrare nulla e tradurre in parola. Ce la fanno. Inventano linguaggi, costruiscono immagini.
Ci lasciamo con la missione di scrivere il proprio miniballetto.
Abbiamo promesso che noi li danzeremo tutti quando ce li portano.
Spero che di questa mattina, di questa danza e di queste parole abbiano raccolto il senso di possibilità e di invenzione. Che si siano sentitə accoltə, tuttə.

(PS: durante l’estate, quando sono tornata a teatro per tenere il corso di alta formazione, ho attraversato il parco del paese. I bambini e le bambine mi hanno fermata, li ho sentiti urlare “è la ballerina”. Abbiamo chiacchierato. Si ricordavano tutto ed erano già cresciuti tantissimo. Che preziosi questi incontri.)

Oggi, come ogni altro giorno,
ti svegli vuoto e spaventato.
Non aprire la porta dello studio per iniziare a leggere.
Riponi lo strumento musicale nella custodia.
Lascia che la bellezza che ami sia in ciò che fai.
Ci sono centinaia di modi per inchinarsi e baciare la terra.
(Jalal al-Din Rumi)


sabato 29 marzo 2025

Carmine arriva dalla salita mezzo svestito, il cappotto infilato a metà, la felpa appesa solo dal cappuccio sui capelli umidi, i jeans slacciati, un braccio e un fianco scoperti.
Il suo tricipite destro, già parecchio ipertrofico, è gonfio e violaceo, lucente dell’unguento al cortisone.
La cresta iliaca sinistra con un pomello perfettamente sovrapposto all’ossatura, un tratto di evidenziatore fucsia sulla parola “anca”.
Un ragno? Chi sarà stato a pungerlo? Ma soprattutto, è ancora lì dentro?
L’idea che quel bozzo iliaco possa essere un nido di ragno è troppo emetica per essere affrontata a tavola.
E lui cena così, il culo mezzo fuori e una manica sola, ancora accaldato dalle pedalate sui rulli in camerino su cui sfoga tutta la sua furia cinetica in questi giorni di consuntivi ministeriali.


domenica 30 marzo 2025

Oggi è cambiato l’orario. Mi alzo alle 9, che sarebbero le 8.
Incrocio Carmine nell’ingresso, ha fatto tutta la notte al computer per finire il bilancio.
Ha visto due gatti litigare e sfiorarsi a velocità western senza guardarsi. Poi azzuffarsi.
Ha il viso fresco come un bambino.
Ha compiuto la sua missione dopato di caffeina e orsetti gommosi.
Ci scambiamo, lui va a letto e io mi alzo.
Domenica senza orari, con orari sbagliati, sfasati. Solo il sole. Finalmente il sole dopo giorni di pioggia.
Cammino nel bosco prima di entrare in teatro. Gli odori mi possiedono.
Alcuni alberi hanno iniziato a fiorire… ma non so come si chiamano.
O, meglio, non so come li abbiamo chiamati.
Le radiazioni del sole sono un tocco di 147 milioni di chilometri.
I miei tessuti ne assorbono solo una parte. Una parte mi attraversa. La rimanente non mi riguarda, ci ignoriamo.
Mi scaldo. Anche noi umani emettiamo radiazioni. Corpi terrestri.
Siamo stelle piccole piccole, facciamo circa 100W infrarossi con l’intera superficie del corpo.
Scaldare un po’ lo spazio, scambiare calore. Toccare a distanza.
Questi pensieri mi accompagnano tutta la mattina.
Mi immagino toccare tutto ciò che sta a qualche decina di centimetri di distanza da me, con le mie radiazioni.
Metto musica a caso e inizio a danzare come se la conoscessi benissimo.
Come se la canzone fosse una specie di oracolo, una veggenza sulla giornata di oggi.
Divinazione che va attraversata con il corpo, letta con le giunture e i loro suoni asimmetrici.
In equilibrio su una gamba il mio sguardo scorre lontano sulle pareti in mattone del teatro, traccia una linea precisa. Lo sento come un dito che percorre i muri. Sento il ruvido con gli occhi.
Mi consumo appena di qualche cellula. Il mio sguardo è un pastello a cera.
Il mio piede sinistro cerca il soffitto mentre la testa si avvicina al pavimento e la gamba destra fa centinaia di piccoli assestamenti talmente intelligenti che non potrei deciderli. Sanno tutto loro, i miei piedi danzano senza di me.
Cerco una posizione estrema. Mi innamoro di un puntino sul pavimento e lo guardo con una passione tale che potrei stare così, ribaltata e squarciata, per qualche ora.
Chissà quanto mondo si è rimescolato in quella polvere.


giovedì 10 aprile 2025

(Dal diario di Angelo)
Oggi ho incontrato Gabriel e Magica Gilly.
La mattina, prima del loro arrivo, ho sistemato il teatro.
Ad accogliermi una popolazione di cimici rinsecchite sul palcoscenico.
Pulire il palco prima dei lavori mi garantisce un certo senso di prospettiva sulla giornata a venire.
Non sapevo cosa aspettarmi dal duo, ho liberato il palcoscenico dal suo tempo espresso in polvere, segatura e insetti vaganti e le gradinate dagli oggetti di Manifesto Cannibale.
Mi rendo conto di non sapere granché su di loro. Mi documento rapidamente in rete. C’è effettivamente un sacco di roba.
So che Abracadabra, lo spettacolo che stiamo creando da un paio di anni, è un discorso intorno alla parola creatrice prima che uno spettacolo di illusionismo eppure sono abituato a tuffarmi nelle riflessioni con una preparazione parziale. Ma comunque….
In attesa del loro arrivo il palco sembrava sospettosamente sgombro.
Siamo in creazione di Abracadabra, prove di Manifesto, entrambi lavori con un potente immaginario scenico cui si poggia sopra la scrittura performativa.
Adesso così vuoto risuonano le parole che sto imparando a memoria di Francesca.
“Il coro dei corpi quasi assenti”.
O, forse ancora più calzante: “Vedete, anche se non vedete… il corpo c’è. Questa non è la sua assenza. Questa è la sua invisibilità.”
In attesa del loro arrivo gioco un po’ con questa sensazione.
Che lo spettacolo è già lì.
Se solo ci vedessi meglio, lo vedrei.
Poi decido malamente di andarmi a fare la doccia nei camerini e perdo l’arrivo di Francesca che trova semplicemente il teatro aperto e nessuno dentro.
Giusto per insistere sull’invisibile.
Arrivano.
Ci stringiamo le mani.
Le loro sono particolarmente morbide.
Se le mani riflettono il lavoro di una persona le loro mi hanno dato la sensazione di chi è abituato a lavorare con l’aria, che chiaramente le mani devono essere ultrasensibili per prendere un oggetto che prima non c’era.
Ci sediamo sulla gradinata (cioè io no, sono su una sedia che altrimenti sarebbe stato come nelle panchine al parco, ma funziona solo con chi conosci super bene).
Loro sono la Magica Gilly (nome d’arte di Giliana Fiore) e Gabriel (sospetto Fiore anche lui, però non so).
Padre e figlia.
Gli racconto chi siamo, che siamo a Mondaino per riscoprire le pratiche e decostruire la residenza come luogo iperproduttivo.
Che stiamo facendo degli esperimenti.
E che faremo un’apertura il 15.
Che devono venire, che si chiama WOW e noi sappiamo cos’è, ma il pubblico no.
Sembrano divertiti anche se forse un po’ scomodi.
Mi è venuto il timore di aver detto cose poco comprensibili, ma poi durante la chiacchierata ci siamo distesi.
Lei ha le unghie smaltate.
Smaltate bene.
Lui ha una giacca di pelle (o similpelle) che sembra super basic, ma che in realtà non lo è.
Sembrano due persone abituate a scegliere come presentarsi.
Dopo che ho blaterato per un po’, Gabriel comincia a raccontarmi la loro formazione.
Mentre racconta ha gli occhi che sfuggono da tutte le parti.
Autodidatta.
Gli piace la magia da bambino. 10 anni.
Inizia da autodidatta poi studia e pratica e diventa un pro.
È nel giro da parecchio tempo, la comunità dei maghi è una cosa seria.
Ha un festival di magia a San Marino che è internazionale e iper grosso e che sta per compiere 27 anni.
Lui dice che i fondi sono pochi e che in Francia fanno le cose meglio.
Interamente sorrido perché magari facciamo parte di circuiti differenti, ma si vede che le cose cambiano fino ad un certo punto.
Spara una serie di nomi di maghi famosi. Un bel po’ ne conosco.
Annuisco comunque a tutti cominciando a maturare una certa ansietta da prestazione.
La magica Gilly non parla molto.
È super presente nella conversazione, con espressioni chiare e comunicative, ma il padre mi racconta anche della sua formazione.
Che ha voluto iniziare lei. Ci tengono, si vede. Ci sta.
Che ha una bel po’ di numeri e ormai si esibisce più del padre.
Ha scritto due libri. Poi vado a vederli in rete. Sembrano super belli, “50 trucchi per veri illusionisti” lo vorrei in casa sicuro.
Ecco, qui su questo c’è qualcosa. Su quel “veri” illusionisti.
Gli racconto Abracadabra brevemente e forse un po’ male, in un goffo tentativo di non spoilerare niente, ma così rendendo forse le cose un po’ vaghe.
Non volevo citare numeri o magie codificate.
Poi però lo faccio lo stesso.
La questione è che la magia è una cosa seria.
Una cosa serissima.
E che mi sa che è stata un po’ bistrattata dalla popolarità.
Che adesso se sei un mago forse un po’ senti che devi difenderti da quelli che fanno finta di farlo. Che non sono dei veri illusionisti. Che si sono improvvisati, non sanno cosa fanno e poi rovinano una cosa che si regge in piedi grazie ad un’alchimia delicatissima.
Che i trucchi non si dicono. Non si fanno vedere due volte.
Non ci si fa scoprire solo perché si è un cattivo prestigiatore. Anzi un non-prestigiatore.
Perché tu che fai il numero male fai scoprire ad un’intera platea i retroscena di qualcun altro.
In questo senso vedo quanto sono diversi i nostri approcci alla scena, ma penso di capire bene il suo discorso.
Non è che non ci si può giocare con l’arte.
Mi cita diverse volte che i bambini con la manipolazione degli animali si divertono un mondo.
E mentre lo dice anche lui si illumina.
Non è che non ci si può giocare. Non è che sia una cosa seria e guai a prenderla in giro.
Ma è comunque una cosa importante.
Per chi la fa e per chi la guarda.
E questo rendere qualcosa di “inutile” super importante è un’alchimia difficile da mantenere.
Durante la chiacchierata sono partiti aneddoti e racconti di formazione.
Di quella volta con 5 numeri in fila, che alla fine ha lavorato più lui come assistente a resettare ogni volta il numero da zero.
Di quella dove le colombe sono semplicemente volate via o sono andate sul ring e poi ha dovuto prenderle con una cantinella.
O quando La Magica si è esibita nella piazza gigante da 3000 persone (che poi non ho capito se c’erano effettivamente 3000 persone, ma a me piace pensare che è andata esattamente così) e che è stato super bello.
Soprattutto trasuda il valore della comunità della magia.
Che si trovano in festival vissuti praticamente solo da maghi.
Si mostrano le cose a vicenda.
Che non ho una corrispondenza per questa cosa nel nostro mondo (e neppure voglio trovarla).
Ma mi vengono in mente le gilde, le massonerie, i gruppi segreti e allo stesso tempo pubblici, un certo amore per l’esoterismo.
Alla domanda “dove trovi le magie che fai?” la risposta è “nella comunità”.
Forse si può pure estendere.
Dove risiede la magia?
Dopo un’ora e mezza abbiamo un po’ perso il filo e il tempo.
Rinveniamo un po’ all’improvviso.
Io rinnovo gli inviti, spero che vengano a trovarci.
Mi sono chiesto più volte cosa vedranno quando vedranno WOW, ma l’unica cosa è provare e vedere cosa succede.
Il teatro torna a essere vuoto.
Io resto con quest’eco di avere per le mani qualcosa di fragile e prezioso.


lunedì 21 aprile 2025

Se puoi ballare balla.
Sono stati giorni difficili.
Giorni di assenza, immobilità, dolore.
Mi hanno fatto una piccola operazione chirurgica e il mio corpo ha preso molto male l’anestesia.
Che magia e che assurdità non sentire più niente.
Lasciarsi in balia della dissezione, delle mani ferme, del farmaco.
Mi hanno fermata a un passo dalla sala operatoria e dentro vedevo la ragazza prima di me intubata.
L’hanno svegliata urlando fortissimo il suo nome, l’hanno sgridata perché si dimenava.
Le hanno detto che se cadeva poi erano rogne e loro non avevano tempo per le rogne.
Non mi sembrava una grande idea espormi a questo spoiler.
Viene il mio turno e mi legano prima di addormentarmi. Le due braccia aperte sui supporti, la sinistra con la flebo, le due gambe aperte e sollevate legate alle tibie.
Sento l’allarme accelerare il respiro. Calmo il respiro e piano cedo all’oblio.
Tutto si mescola al mio risveglio. Mi raccontano che gridavo fortissimo aiuto.
A me sembra una reazione sana.
Continuo a dimenticare tutto. Le gambe sono percorse dalla corrente elettrica. Mi perdo e mi ritrovo in sensazioni che non hanno nomi.
Pensavo di rientrare subito all’Arboreto ma mi dicono che il mio corpo ha reagito in modo eccessivo. Mi danno altri farmaci, altre iniezioni da fare nell’addome che ormai è un mosaico di piccoli lividi a diversi stadi cromatici. Rosso, violaceo, giallo.
Cammino a fatica. La notte le gambe sono percorse da fiotti di lava ed elettricità.
Comunico a distanza con gli altri. Le lenzuola di Manifesto Cannibale appese sul palco. I loro corpi seminudi guidati dal pubblico in I x I.
La classe di yoga delle sudate alchemiche guidata da Carmine dopo la nostra lunghissima telefonata.
La vedo a distanza. La loro energia fa esplodere un faro che piove su una partecipante.
La lacrime li sfiorano ma la gioia li possiede. Finiscono in gratitudine e io sono fiera e sola.
Gloriosamente fiera, disperatamente sola.
A tratti credo di impazzire. Penso a questo corpo che mi tradisce e mi salva, mi tradisce e mi salva.
Tengo accesa una candela tutto il giorno, la fiamma mi accompagna come presenza viva.
Come un piccolo animale domestico. Qualcosa da coltivare.
Fra pochi giorni ci sarà Manifesto Cannibale. Pensavo di essere guarita a quel punto.
La mattina del giorno prima mi sveglio e un piede non si muove.
Come in Kill Bill. Chiamo l’alluce e non risponde, la caviglia è densa. Il colore brutto. Come se il piede fosse morto.
Dottore. Dottore chiama altro dottore. In tre guardano la mia gamba.
Mi mandano di urgenza al pronto soccorso. Codice arancione. Durante la giornata il piede ricomincia a muoversi. La sera lo appoggio appena. Noleggiamo una sedia rotelle e il giorno dopo sono al teatro Arena del Sole di Bologna. La scena è bellissima. La pendenza della platea rende complesso ogni spostamento… mi aiutano.
Ti accorgi in questi momenti di quanto sia incredibilmente difficile la vita delle persone con disabilità, delle artiste e degli artisti con disabilità che riescono, nonostante barriere architettoniche, economiche, sociali a lavorare in questo ambiente. Dovrebbero provare tutte le persone a stare un po’ in sedia a rotelle… soprattutto quelle che si occupano di prendere decisioni sul corpo delle altre.
Le ore avanzano e cammino a fatica, ma cammino.
Ghiaccio in camerino, iniezioni, stampelle, gamba in alto.
Alla fine faccio lo spettacolo. Come al solito sul ciglio dell’impossibile. Sempre sul filo del funambolo.
Tutto sta nello stare nella realtà. C’è sempre un possibile e l’arte può accoglierlo.
Ma servono operazioni piene di spazio per il reale.
Il mio corpo continua a tradirmi e meravigliarmi.
Non capisco. Non capisco nemmeno i medici. Ma capire forse non è la questione.
Vogliamo capire tutto e quindi appiattiamo il reale alle nostre capacità di spiegarlo e approssimiamo le sfumature ai vocaboli esistenti. Forse capire significa sempre approssimare, chiudere.
Cerco di stare nel sentire e di reagire ad esso.
È un sentire senza nomi e se mi concentro perde anche il nome di dolore. Diventa pura sensazione.
Un panorama articolatissimo che si mescola all’immaginazione.
Non sempre ci riesco.
Quando ci riesco la sensazione di pericolo, di morte, si deposita.
Mi godo tutto. Il privilegio incredibile di essere in scena come un dono.
Come un dono che ricevo e che faccio.
Vado in scena senza niente da dimostrare, solo da esistere, come dice il mio amico cantante.
Solo la necessità di rendere prezioso il tempo assieme, di creare una memoria in grado di trasformare, luccicare.
Succede qualcosa che mi viene da chiamare miracolo. Un miracolo piccolo piccolo.
Esco di scena e le persone si inginocchiano davanti a me, mi tengono le mani. Piangono.
Mi scrivono nei giorni successivi raccontandomi i loro sogni. Qualcosa è cambiato.

Torno all’Arboreto e lascio un intero giorno per assorbire quello che è successo.
Carmine fa la spesa e io e Angelo parliamo tra teatro e bosco.
La gamba destra appoggiata sul tavolo.
Angelo si alza e con gentilezza accompagna le cimici nel verde.

La notte succede di nuovo. Mi sveglio alle 4 nelle fiamme.
Lo stesso piede non si muove più.
Noleggiamo una nuova carrozzina. È tutta scassata, ha le ruote a terra e i pezzi metallici sembrano una trappola per topi pronta a scattare. Tutti vogliono giocarci. Porta sfortuna dico, ma niente da fare.
Loro non hanno paura della sfortuna.
Il giorno dopo ci raggiunge di nuovo Simone. L’atmosfera è serena e io sono molto tranquilla nonostante questi strani sintomi continuino a prendere il sopravvento.
C’è la Pasqua, il patrono di Ferrara, il ponte della liberazione e non riesco a trovare i medici quindi sono rilassata e arresa.
Mettiamo le mani su Abracadabra ed è bellissimo.
Ascoltiamo brani, registro pezzi di testo e mostriamo a Simone e Carmine la scena del lipsink di Angelo.
Se potessi ballare finirei di imbastire la coreografia invece provo a fare tutto con le parole… come nelle magie.
È un bell’esercizio e riesco a domare la frustrazione come un cane feroce addestrato.
Sta seduta accanto a me ma non attacca.
Se puoi ballare, balla. Me lo ripeto da giorni.
Ci auto-ipnotizziamo con delle bolle giganti che diventano mondi, diventano voce, spazio temporaneo, illusione di un dentro e di un fuori. Illusione di una separazione.
Il fumo che si libera dal loro interno è parola che dilaga.
Guardiamo, cangiante e temporanea, la consistenza stessa dell’aria.
Resto a bocca aperta. Penso che lo spettacolo potrebbe essere tutto così.
Forse Alessandro Sciarroni riuscirebbe a farlo.
Io no, io creo in un’accozzaglia di mille idee e per me semplificare è sempre un processo che arriva dopo tanto e a fatica.
Con le scene tagliate di ogni spettacolo se ne farebbero altri 3… ma se rimanessero lì si ucciderebbero a vicenda.
Mi convinco che tutte le cose belle che non andranno mai in scena potenzieranno silenziosamente quello che resta. Gestisco così questi piccoli lutti. Insomma, me la racconto così.

Mi godo gli ultimi giorni all’Arboreto sentendomi a casa, per quanto temporanea.
Il teatro è tutto coperto da fondale e quintatura quindi ogni volta che c’è occasione ci mettiamo a parlare sul tavolo fuori, per rinfrescarci le idee e dare loro spazio.
È fondamentale.
Spesso passano persone con sguardo interrogativo e raccontiamo del teatro… proviamo a spiegare cos’è una residenza e che questo luogo è unico. Chiacchieriamo, le invitiamo.
Mi sembra che questi incontri siano così importanti. O almeno desidero crederlo.
Una famiglia è entrata dentro mentre registravamo delle musiche. La figlia più piccola non voleva più andare via.
Magari da grande ricorderà quel momento come qualcosa a cui tornare.
Come i ballerini del lago dei cigni che ho visto quando avevo 4 anni che dormivano sulla corriera. Temo sia stata l’idea di dormire tuttə assieme sulla corriera a farmi innamorare della danza.


mercoledì 23 aprile 2025

Io che non riesco mai a dormire sono al centro del palco, rannicchiata sul fianco destro e completamente inerte. Luci tecniche, musica random, qualche insetto che mi cade accanto, Angelo e Carmine che caricano il furgone con le cose che non serviranno più. Dormo, secca.
Mi sveglio per gli scatti involontari dei muscoli.
Le ossa non sono felici della relazione con il suolo.
Fuori un temporale fortissimo sciacqua il cielo che fino a poco fa era azzurro.
La meteoropatia mi prende un po’ a calci.
Mi ingozzo con qualche pezzo rimanente dell’uovo di pasqua nella speranza che il fondente mi svegli.
Fra un’oretta arrivano le persone.
Preparo lo spazio per le sedute alchemiche. Proviamo mille soluzioni luminose e poi portiamo le lampade dell’ingresso per creare un’atmosfera casalinga, raccolta.
Siamo una decina, tuttə arrivano con il sorriso.
Riconosco chi era alle sedute alchemiche la scorsa estate, ricordo i racconti della figlia adolescente, di altri figli di amici che avrebbero potuto partecipare ad Age (il nostro spettacolo con un cast di adolescenti che è nato proprio in residenza qui lo scorso anno).
C’è anche Isabella, che non vedevo da anni e che aveva giocato con noi a cinetico4.4 nel 2012…
Era a Bologna due giorni fa a vedere Manifesto Cannibale.
L’aveva visto anche al Festival di Santarcangelo.
Insomma, lei c’è sempre stata, sono io che non la vedevo.

Do un po’ di istruzioni per la seduta: postura, respiro, gestione di eventuali insofferenze.
Chiudiamo le palpebre e ci immergiamo in un altro spazio. L’attenzione cambia grana. Il tempo cambia consistenza e con loro anche il corpo.
Diventiamo aria, nuvola, elettricità.
Mentre percorriamo la pelle il sole percorre lo spazio tra tetto e bosco illuminandoci all’improvviso come un bagno dorato.
Qualcosa di magico e minuscolo che rimane lì, in quella dimensione sotto alle palpebre.
Quando torniamo a vedere, i visi sono distesi e luccicanti.
Ci intratteniamo un po’ a parlare, raccontiamo aneddoti e retroscena.
Prezioso.
E così, ancora una volta, ringrazio il teatro, il bosco, gli incontri, questo essere assieme che trasforma e scalda.

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